[Forum SIS] commenti ad articolo di A. Ichino sul quoziente familiare

av av a vannucci.com
Gio 18 Nov 2010 13:34:32 CET


Sono molto grato ad Andrea Ichino per aver così prontamente, cortesemente e concretamente corrisposto alle mie osservazioni. Chiudo il cerchio con alcune ultetriori precisazioni sulle sue interessanti repliche, solo per lasicare poi al forum SIS il piacere di sviluppare i tanti argomenti sollevati.


Concordo pienamente (e non potrei diversamente) sulla criticità delle dinamiche sui "commons". La natalità, senza dubbio, rientra fra i fenomeni per cui la percezione individuale di utilità/danno dei singoli non favorisce un orientamento dei comportamenti di  massa che tenga conto del danno/utilità aggregato. Non v'è dubbio che anche la pur modestissima natalità italiana contribuisca alla sovrapoppolazione del pianeta, e che in questa prospettiva sia opportuno non favorirla.

Il mio argomento, però, è di ordine più specifico e congiunturale. La denatalità Italiana è un dato di fatto, e in termini generali può anche essere considerata anche un fatto positivo sotto molti punti di vista. Ma ciò che sta determinando, oggi, acuti problemi e ampie ripercussioni è l'intensità con cui questa denatalità si è andata manifestando: la nostra società si trova ad affrontare un invecchiamento che deriva dal sovrapporsi di un allungamento generalizzato dell'aspettativa di vita (fra le più alte del mondo, vivaddio) e di un drastico abbassamento della fertilità che si è presentato nelle generazioni dei nati a partire dagli anni 50, e con forti asimmetrie nella sua distribuzione fra segmenti geografici e sociali. 

Il problema che pongo è, quindi, non se in generale una denatalità sia un fatto positivo, ma piuttosto se questa debba essere così rapida; e se il bilancio a saldo dei costi/benefici complessivi (per l'Italia e per il pianeta) che conseguirebber a un calo di fertilità meno brusco, anche solo di qualche decimo di punto, sia positivo o negativo.

Proprio perché già ormai arrivata a livelli ben inferiori al tasso di riproduzione semplice, il contributo differenzale che la natalità Italiana può apportare al bilancio demografico mondiale in corrispondenza di livelli nel TFT che siano maggiori o minori di solo qualche punto decimale è modesto. E comunque, fintanto che il TFT Italiano rimane sotto al 2, una differenza nel suo valore di 0,2~0,3 punti si traduce semplicemente in una diluizione dello spopolamento su un arco di tempo poco più lungo.

Per lo stesso motivo, però, a livello nazionale anche solo una differenza del genere può avere ripercussioni notevoli, soprattutto di ordine dinamico: ammesso che vada bene tendere ad una popolazione autoctona di qualche decina di milioni di individui in meno, e che ciò sia salutare su scala planetaria, per l'Italia fa una bella differenza se a questo traguardo ci si arriva al 2050 o al 2080. 
Ciò che mi preoccupa, quindi, non è l'assetto raggiunto "a regime" da una società invecchiata e in calo demografico, bensì i problemi socio-economici conseguenti alla dinamica della transizione, soprattutto quando questa è così accelerata (e distribuita disegualemente in alcuni segmenti)

L'invecchiamento demografico comporta la gestione su larga scala di fenomeni quali l'invecchiamento senza figli, l'abbassamento del reddito disponibile per i pensionati, l'avvicendamento nelle forze di lavoro fra popolazione di origine interna e popolazione immigrata, la concentrazione dei patrimoni oggetto di successione, la riorganizzazione su diverse basi dei sistemi di assistenza, istruzione. I costi economici e sociali di questi fenomeni sono ben diversi se l'invecchiamento si consuma più o meno rapidamente; certamente, il loro sviluppo non è lineare. Integrare i figli degli immigrati (che siano i benvenuti, e che riescano a porre in Italia dimora 
permanente, arricchendosi per il bene comune) nel nostro sistema scolastico con un tasso di presenza del 10% è gestibile; farlo quando il tasso di presenza arrica al 20%, al 30% costa molto più del doppio o del triplo. Parimenti, per i sistemi sanitario e previdenziale è ben diverso gestire la presenza nella società di una quota di anziani soli e senza figli se questa è del 10% in 50 anni, oppure se arriva a picchi del 20%, 30% in 30, 15 anni.


Nulla ho da aggiungere sulle altre osservazioni di Andrea. Prometto che studierò le analisi che ci ha segnalato (grazie). E' chiaro però che il punto nodale è se la denatalità debba o meno essere rallentata; come a tal fine si articolino i più opportuni interventi di politica economica, diretti o indiretti, è altro tema. 

Su un punto, però, voglio insistere: trovo inesatto, e concettualmente fuorviante, considerare l'applicazione di un sistema di quoziente familiare come intervento a sostegno della natalità. Questo dovrebbe, a mio parere, piuttosto cosnderarsi un principio elementare di equità fiscale.

La famiglia (anzi, per essere anche più generali diciamo: "la convivenza") è, con ogni evidenza, il principale aggregato sociale in cui si opera la redistribuzione del reddito e di tutte le altre forme di utilità non monetizzabili; soprattutto, è la sede precipua dove si materialzza lo scambio generazionale. Che l'imposizione sul reddito disponibile debba riferisi, almeno in qualche misura, al cumulo dei redditi delle convivenze distribuito per i suoi membri, pertanto, è un pricipio minimale di giustizia fiscale, non un favoritismo. 

E ciò, al limite, perfino a voler prescindere dalla considerazione della posizione fiscale dei minori. E' evidente, infatti, che un sistma fiscale che tassa il reddito individuale penalizza i contribuenti che adottano, in convivenza, una ripartizione non omogenea dei carichi di lavoro domestico o redditizio; anche se si tratta di soli adulti. 

Nella misura in cui non adotta un quoziente familiare, quindi, il fisco penalizza non solo i figli (quanto più membri di famiglie numerose) ma anche ad esempio le donne non lavoratrici, o che adottino un occupazione parziale; e parallelamente favorisce chi distribuisce nel modo più omogeneo possibile consumi e redditi. Per questo, fra l'altro, l'assenza di un quoziente familiare determina un sostanziale vantaggio fiscale per le convivenze che vivono di redditi d'impresa: queste infatti possono operare una redistribuzione ottimale del reddito fra i membri del nucleo, traendo il massimo possibile beneficio in termini di aliquota media applicata. 
(mi pare che sia stato il min. Tremonti, recentemente, ad osservare come i bassi livelli di reddito imponibile misurati con le dichiarazioni di specifiche categorie di commercianti, artigiani e altri piccoli imprenditori siano in parte conseguenza della distribuzione del reddito d'impresa su più membri della famiglia dell'imprenditore)

Anche ammettendo che lo Stato voglia essere indifferente al tema della natalità, e non favorire in alcun modo le famiglie in rapporto alla presenza più o meno numerosa di figli, non si vede perché dovrebbe premiare la frammentazione del reddito disponibile. Non riesco proprio a capire perchè un nucleo di due persone, madre non coniugata lavoratrice percettrice di reddito e figlio universitario, debba pagare più tasse di una coppia senza figli che si ripartisca lo stesso reddito.

La validità del principio del quoziente familiare, quindi, è a mio parere da sostenere a prescindere da qualsiasi considerazione di opportunità relativa al sostegno della natalità o più genericamente della famiglia.

A.V.



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